La mostra sui marchigiani di Pontelagoscuro: tuttl’inclusione
|La mostra fotografica “Miniera. Segni e parole. Storia di migrazione e integrazione” racconta «una storia che va raccontata»
La mostra si trova all’interno dell’ex serbatoio di Nafta del PARCO ARCHEOMINERARIO.
Per le visite guidate estive: sabato 16:30; 18:00 – domenica e festivi 11:00; 16:30; 18:00. Nel mese di Agosto anche i giorni feriali 16:30; 18:00
Il viaggio, o meglio, il trasferimento collettivo inizia con la chiusura dell’attività della miniera di zolfo di Cabernardi di proprietà della Montecatini.
Novanta anni di scavi, di esplosioni per avanzare nelle gallerie, di carrelli stracolmi di minerali spinti a forza di braccia, di muli ciechi, di minatori sudati e sporchi.
Tutto finì il 5 luglio 1952.
Lo sciopero dei “sepolti vivi”, nonostante l’accordo sottoscritto, non raggiunse lo scopo del mantenimento dell’occupazione e dell’attività produttiva di estrazione.
La società Montecatini iniziò così a trasferire centinaia di persone, in particolare gli scioperanti, verso paesi e luoghi, ai più, sconosciuti.
E soprattutto lontani, per quell’epoca. Distanti centinaia, anche migliaia di chilometri dalla propria abitazione. Lontani dai propri cari. Un esodo biblico. Così la gente sciamò verso la Toscana, il Trentino, la Sicilia, l’Emilia-Romagna. Ma anche in Belgio, in Francia, in Lussemburgo. Tutti via. Via dalla miniera di Cabernardi e via dal paese. Con le poche cose che potevano stare in una piccola valigia di cartone.
Il paese di Pontelagoscuro in provincia di Ferrara accolse quasi 250 famiglie. Pontelagoscuro, un paese in ricostruzione, a ridosso della riva sud del grande fiume Po, immerso nella nebbia a poca distanza da una azienda chimica di proprietà della Montecatini. Pochi, intrepidi ex-minatori avevano già messo piede, da qualche mese, quasi come avanguardie, nella terra estense.
Noi e non per nostra volontà, di lì a poco, venimmo incoraggiati a trasferirci, senza tanti complimenti. Ci trovammo là a duecentocinquanta chilometri di distanza, dopo un lungo viaggio. Tutt’attorno nemmeno una collina. Tutto piatto e poco distante un grande fiume aldilà del quale si sconfinava in Veneto.
Ci adattammo senza le nostre colline, le strade tortuose, ripide e ghiaiate. Non potevamo fare in altro modo. Ci adattammo.
A maggio del 1954, gran parte di noi, ricevette le chiavi di una casa. La Montecatini, società padrona, oltre al lavoro – dopo avercelo tolto – ci forniva anche una abitazione. Anzi un intero villaggio costruito a nuovo, perché di famiglie eravamo in duecentocinquanta. Il Villaggio Orsera. Casette a due piani con un giardinetto. Case bellissime per quei tempi e di nuova concezione urbanistica.
Non c’era molta gente, neanche tra i ferraresi, a potersi permettere dimore così accoglienti. Forse i cittadini benestanti del centro città. Forse. Nei quartieri attorno alla città e in campagna invece, dove la prevalenza della forza lavoro era bracciantile, neanche a parlarne. Lì non c’era neanche l’acqua corrente in casa.
La Montecatini per costruire il “Villaggio Orsera” impiegò appena 8 mesi. Un tempo record. L’insediamento iniziato in agosto del 1953 fu completato in maggio del 1954.
Tutt’attorno non c’era nulla, i bombardamenti avvenuti durante la Seconda guerra mondiale aveva distrutto metà delle residenze degli operai e dei commercianti che svolgevano le loro attività in loco.
Diversamente dagli altri centri di periferia del ferrarese che continuarono a legarsi economicamente con l’agricoltura, Pontelagoscuro non tradì mai la vocazione secolare di centro nevralgico per i collegamenti e il commercio che favorì la collocazione di primi insediamenti industriali e più tardi di aree industriali molto importanti.
All’inizio degli anni Cinquanta, quando la ricostruzione stava cominciando, all’orizzonte si notavano poche abitazioni (foto aerea Villaggio Orsera). Pontelagoscuro Vecchio non esisteva più, la bellissima Via Coperta neppure e nemmeno quelle fabbriche che avevano animato il paese dando lavoro, prima della guerra, a centinaia e centinaia di persone.
La convivenza tra ferraresi e marchigiani non è avvenuta in modo lineare e tranquillo. La tensione aleggiava in paese come nei luoghi di lavoro. Allora come ora i contrasti e le incomprensioni nascevano soprattutto per problemi di cultura, di tradizioni diverse, di dialetto, di riconoscibilità. Eppure, eravamo “immigrati”, provenienti da alcune centinaia di chilometri. Adesso un tiro di schioppo. Cosa volete che siano, duecentocinquanta chilometri. Tre ore di auto. Un niente.
Eppure, i ferraresi, gli autoctoni, non ci volevano. Dicevano che eravamo lì “per rubare loro il lavoro”.
Vi ricordano qualcosa queste frasi? Oggi? Poi, il tempo, il contatto, la frequentazione, la reciproca conoscenza, la crescente fiducia faranno saltare le “frontiere” psicologiche e le barriere erette contro chi invadeva una terra non sua. Ci sono voluti anni, quanti non so. So che ad un certo punto l’integrazione si completò quando si dissolsero i muri delle ultime diffidenze e cominciarono gli scambi culturali, quando si mescolarono i rapporti, quando cominciarono i matrimoni misti.
Oggi a Pontelagoscuro si affaccia la terza generazione. Ragazze e ragazzi nati e cresciuti nel luogo dove i nonni erano emigrati. Qui hanno completato gli studi e qui oggi lavorano e vivono dopo essersi fatti una famiglia. “Cristalli nella Nebbia” prima come Comitato e poi come Associazione nasce per questo: “per raccontare la storia di queste coraggiose famiglie, dei loro figli e nipoti “. Del distacco patito.
Delle loro storie, della fatica dell’integrazione, delle tradizioni marchigiane assorbite e fatte proprie dai pontesani nella cultura culinaria, nell’offerta e nel consumo di un bene primario come il pane (“la fila” che sostituisce “la coppia”), nel coniglio in porchetta, nelle erbe amare di campo ripassate in padella, nella zuppa di ceci particolarmente gradita in occasione della Vigilia di Natale e nell’apprezzare una cucina povera derivante da una cultura agricola e contadina.
Col tempo seguiranno, per motivi di lavoro o per ricongiunzioni o per altro ancora, nuovi trasferimenti le cui vicende non dipenderanno dalla miniera di zolfo di Cabernardi.
Chi si spostò, successivamente, lo fece perché lavorando o cercandolo sapeva di poter contare sulla presenza di parenti e di amici di famiglia.
Con la Mostra nel Chiostrino S. Paolo del settembre 1996 e con la prima edizione del bellissimo libro “Cristalli nella nebbia. Minatori a zolfo dalle Marche a Ferrara“ si esaurisce il compito del Comitato per dare vita, nel novembre 2013, per volontà di cinque soci fondatori ( Guido Guidarelli Mattioli, Giuseppe Ruzziconi, Flaviano Mencarelli, Elvio Andreolini, Gianpiero Costantini) all’Associazione Cristalli nella Nebbia ai quali si aggiungono Giuseppe Pastorelli e Benito Fraternali.
Oggi l’area della miniera di Cabernardi e quelle viscere, che hanno accolto all’interno delle gallerie gli uomini-talpa a profondità inumane, è diventata un Parco Archeominerario inaugurato il 5 luglio 2015 dalla Presidente della Camera On. Laura Boldrini.