La Lotta dei Sepolti Vivi
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Sessanta tre anni fa, il 5 luglio 1952, era un sabato. Non un sabato qualunque. Fu il giorno in cui i “sepolti vivi”, i 176 minatori che da 40 giorni si erano barricati al 13esimo livello, scelsero di porre fine all’occupazione della miniera di Cabernardi. Il più grande polo estrattivo di zolfo d’Europa. Scelsero di rimettere in moto il gabbione, l’ascensore tra la superficie e le viscere della terra, convinti di aver in tasca l’accordo che avrebbe salvato il posto di lavoro di 860 persone. Uscirono uno ad uno, da eroi, simili nel pallore, nella magrezza e nella barba incolta, con gli occhiali neri ed un fazzoletto al collo per ripararsi dalla luce e dal calore di un sole impietoso. In pochi riuscirono ad abbracciare da subito i propri cari, quasi tutti scortati dalle forze dell’ordine, colpevoli di aver occupato arbitrariamente la miniera di proprietà della Montecatini e di aver sequestrato materiali esplosivi. L’atto di forza era iniziato alle 14 del 28 maggio con la parola d’ordine “Coppi maglia gialla” scritta su un vagone mandato in miniera dall’esterno. Da quel giorno, barricati al livello vigilato dalla statua di Santa Barbara, i 176 minatori diventarono per la prima pagina di tutti i giornali d’Italia i “sepolti vivi”, che ne raccontarono la storia soprattutto attraverso l’azione di Giuseppe Di Vittorio della Cgil. Una storia triste che anche un giovane Gillo Pontecorvo filmò – purtroppo prestando ai protagonisti un assurdo accento romagnolo – nel documentario “Pane e zolfo”. Una cronaca che si chiude con un flusso migratorio verso le miniere di Ferrara, della Sicilia, del Belgio che ha dimezzato la demografia di Sassoferrato, Pergola, Arcevia. La cronaca di una chiusura che forse è all’origine della prima ufficiale bonifica ambientale quando la Montecatini impiegò gli operai per piantare migliaia di alberi sui monti a compensazione dei danni provocati dai fumi dello zolfo. Un lavoro di bosco e di foreste all’origine della bellezza odierna di questo lembo dell’entroterra sorvegliato dal pozzo Donegani, simbolo della miniera, e dal campanile del Santuario della Madonna del Cerro. Per la cronaca, quel sabato 5 luglio, Fausto Coppi calzò realmente la maglia gialla vincendo l’undicesima tappa del Tour de France Bourg d’Oisans – Sestriere. Lo vinse davanti allo spagnolo Bernardo Ruiz e al belga Constant Ocker.
Véronique Angeletti
Riflessioni…
Sono i giornali dell’epoca, “L’Unità”, “Mondo Operai” che diedero il nome di “Sepolti vivi” ai minatori. “Noi, che lavoravamo nelle miniere di Carbone in Belgio, volevamo sapere cosa succedeva a Cabernardi – racconta Francesco Angeletti, 83 anni. Ero partito da Radicosa con la mia valigia di cartone nel 1950. Avevo appena compiuto 18 anni. La mia famiglia era possidente, avevamo terre a Radicosa, ed era impossibile ottenere il libretto del Lavoro. Pertanto avevo colto l’opportunità offerta dal governo italiano di lavorare in Belgio. Prima sono arrivato nel Limburgo ma la lingua era troppo brutta e riuscii dopo pochi mesi ad ottenere un posto nelle miniere di Liège dove, tuttora risiedo. Per sapere dell’occupazione della miniera, con mio cugino Elio Angeletti avevo comprato il quotidiano L’Unità che non era neanche facile trovare. Uscendo dall’edicola, incontrai uno degli ingegneri belgi che mi prese da parte e mi disse: “François, ceci n’est pas un journal pour toi. Surtout pour toi”. Ossia Francesco, questo non è un giornale per te. Sopratutto per te. Nonostante avessi solo 20 anni ero già capo squadra e capii che anche in Belgio leggere notizie del proprio paese lontano migliaia di chilometri su un giornale di sinistra non si poteva fare”.
Intervista a mio padre, il 28 giugno 2015
ve. An.
Riflessioni …
Una cronaca vecchia più di mezzo secolo che, di questi tempi, rimane attuale. Perché la storia della nostra gente sembra ripetersi. Quella della lotta per un posto di lavoro, per la salvaguardia di un’economia al tramonto, per impedire lo smantellamento di un intero sistema produttivo e di filiera e la delocalizzazione. E poi il rischio di dover scegliere di emigrare o peggio di vederselo imporre.